La psicoterapia sistemica ed il paziente con disturbo ossessivo compulsivo, alcuni spunti per il trattamento

Human Head With Door And Stair” by nattavut. da freedigitalphotos.net

In diverse situazioni sia nel mio studio di Milano che nel mio studio di Desio, nel corso degli anni, mi è capitato di trattare pazienti che presentavano una sintomatologia ascrivibile ad un disturbo ossessivo compulsivo. Sebbene l’approccio sistemico relazionale permetta di fare delle ipotesi che vanno al di là degli aspetti diagnostici, prendendo in considerazione l’individuo all’interno del proprio sistema di relazioni, mi risulta comunque utile avere un’idea diagnostica per orientare il processo di terapia.

Nel caso dei pazienti che presentano disturbi ossessivo compulsivi, solitamente nel corso del trattamento emerge la tendenza a spostare la propria ansia su pensieri ossessivi e agiti compulsivi nel tentativo di controllarla. Il tema del controllo, per questi pazienti, è spesso piuttosto rilevante e si ritrova la tendenza a controllare anche le relazioni. Tale modalità di gestione dei rapporti, oltre che della propria vita, è fonte di forte stress e canalizza tutte le energie della persona nell’attività di controllo.

Il lavoro di terapia non interviene direttamente sul sintomo, sebbene nel corso del trattamento vengano anche strutturate insieme al paziente specifiche strategie che permettono di diminuire l’impatto del sintono sulla propria vita nell’attesa che il lavoro più profondo su di sé permetta di ridurre la sintomatologia, ma è volto ad intervenire sulle modalità relazionali del paziente e sul suo modo di stare nel mondo, riducendo la paura del contatto con l’altro.

 

La relazione terapeuta – paziente nel lavoro di psicoterapia, un’analisi a partire da alcuni spunti di Bauman sulla costruzione dell’identità

In questo articolo prendo ancora spunto dal libro di Zygmunt Bauman Intervista sull’identità (ed. Laterza, 2003) per approfondire quali dinamiche entrano in gioco nel complesso (e continuo) processo di costruzione dell’identità.

A tal proposito, citando Bauman, possiamo dire che “…dopo tutto, il nocciolo duro dell’identità, la risposta alla domanda <chi sono io> e soprattutto la credibilità nel tempo di qualsiasi risposta possa dare a questa domanda, può formarsi solo in riferimento ai legami che connettono l’io ad altre persone e alla presunzione di affidabilità e stabilità nel tempo di altri legami. Abbiamo bisogno di relazioni, e abbiamo bisogno di relazioni su cui poter contare, una relazione cui far riferimento per definire noi stessi.”

In queste parole appare evidente la centralità dell’esperienza della relazione per la costruzione dell’identità e, implicitamente, emerge quanto all’interno di tale esperienza è possibile modificare l’idea che abbiamo di noi stessi. Anche all’interno del percorso di psicoterapia l’esperienza della relazione nell’ambito del rapporto terapeuta – cliente contribuisce a favorire l’emergere di nuove visioni rispetto al sé.

L’autore tuttavia mette anche in evidenza il profondo conflitto che l’uomo al giorno d’oggi si trova ad affrontare, lacerato tra il desiderio di stabilità e la paura di perdita di libertà caratteristica di un mondo in cui il disimpegno è praticato come, sempre citando Bauman, strategia comune della lotta per il potere e l’auto affermazione. Secondo Bauman infatti nell’ambiente della modernità liquida le relazioni stabili possono essere avvertite come pericolose e, nonostante ciò, ne abbiamo profondamente bisogno. Questa contraddizione spesso si incontra anche all’interno della relazione terapeuta – cliente, laddove si avverte nella persona da un lato il timore di affidarsi e di essere accompagnato nel percorso di terapia dall’altro si percepisce il bisogno di avere questa esperienza di accoglienza e di supporto.

Nel lavoro di terapia infatti all’interno della relazione terapeuta – paziente si riproducono spesso le modalità relazionali che il paziente adotta all’esterno della stanza di terapia con le persone della propria vita. La manifestazione di questi specifici pattern inoltre viene più o meno favorita dall’interazione con le modalità relazionali del terapeuta (ed è bene che quest’ultimo, per fare un buon lavoro, ne sia il più possibile consapevole, analizzando nel corso della terapia che tipo di interazioni si vanno man mano a creare). Da ciò ne deriva che la relazione che si instaura tra terapeuta e paziente nell’ambito del lavoro di terapia è essa stessa terapeutica e, collegandosi a quanto espresso da Bauman, lo è anche perché favorisce la costruzione di un diverso concetto di sé, arrivando a modificare il modo che ha la persona di percepirsi ossia intervenendo sull’identità.

Identità e psicoterapia, alcune considerazioni a partire da Zygmunt Bauman

“Nel nostro mondo fluido impegnarsi per tutta la vita nei confronti di un’identità, o anche non per tutta la vita ma per un periodo di tempo molto lungo, è un’impresa rischiosa. Le identità sono vestiti da indossare e mostrare, non da mettere da parte e tenere al sicuro”.

Inizia così un capitolo del libro di Zygmut Bauman Intervista sull’identità (ed. Laterza, 2003) nel quale l’autore mette in evidenza che nella nostra epoca anche l’identità appare essere fluida e mutevole e ognuno di noi nel corso della propria vita si ritrova più volte a doverla ridefinire.

L’autore inoltre mette in evidenza come il concetto di vera identità in contrapposizione alla falsa identità appaia essere privo di significato nel momento in cui si mette in discussione la premessa che ne sta alla base, ossia che esiste un’identità vera, la quale per definizione appare essere piuttosto definita ed immutabile.

Non risulta essere così nel momento in cui andiamo ad approfondire come strutturiamo la nostra identità e come tale processo di strutturazione in realtà è continuamente in atto, e continuamente la nostra identità muta, a seconda dei contesti nei quali ci troviamo, delle relazioni in cui ci identifichiamo.

L’esperienza della relazione con l’altro, in particolare, risulta essere fondamentale per definire la nostra identità e come l’altro ci riconosce rappresenta un elemento imprescindibile all’interno di questo processo di continua definizione.

Vi sono tuttavia a mio avviso alcuni pilastri della nostra identità che nel tempo abbiamo costruito e che rappresentano delle sicurezze che ci consentono di non trovarci smarriti nell’affrontare il mondo. Questi pilastri risultano essere più difficilmente modificabili, sebbene anch’essi ad un esame più approfondito risultino frutto di costruzioni sociali che emergono nell’esperienza di interazione con l’altro.Vi sono particolari momenti della nostra vita in cui alcuni aspetti che riteniamo fondamentali nella definizione della nostra identità, questi pilastri, vengono messi in discussione e ciò può accadere a seguito di forti eventi esterni come una situazione traumatica, un attacco all’identità proveniente dall’esterno (si pensi ad esempio alle situazioni di mobbing) o a seguito di una crisi personale che spesso è comunque frutto di cambiamento di fattori di contesto.

In questi casi ciò che ne deriva è una profonda crisi personale, dove ci si sente smarriti perché è come se si fossero persi i punti di riferimento che ci permettevano di collocarci nel contesto e all’interno delle relazioni. In questi casi in realtà ciò che sta accadendo è semplicemente la conseguenza dell’esigenza di adottare altri punti di vista utili a modificare l’idea che abbiamo di noi, il nostro modo di percepirci e considerarci. Tale crisi è perciò un’occasione di cambiamento che potrebbe permetterci di riuscire ad adattarci ad un contesto e ad un sistema di relazioni che è cambiato proprio perché mutevole e fluido.

In questi momenti un percorso di psicoterapia individuale potrebbe aiutare la persona ad affrontare questa crisi e ad attivare le risorse utili a ricostruire la propria identità ma, soprattutto, a sviluppare quella consapevolezza e quelle competenze necessarie a gestire la mutevolezza dell’identità stessa, mutevolezza che è insita nella nostra società liquida.

Appunti di psicoterapia sistemica

 

 

In questo articolo riprendo alcuni interessanti spunti tratti dal testo di Gianfranco Cecchin “Idee perfette (ed. Franco Angeli, 2003) nel quale viene illustrato l’intervento di psicoterapia secondo un approccio sistemico. Continua a leggere

Uso dei test psicologici ed approccio al paziente nel lavoro di psicoterapia, libere considerazioni a partire da alcuni spunti di “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks”

Nell’articolo di oggi mi piacerebbe fornire alcuni spunti di riflessione a partire da un famoso libro di Oliver Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”. Nello specifico, utilizzerò alcuni spunti per approfondire l’utilizzo dei test in psicologia e nell’ambito del lavoro di psicoterapia.

A tal proposito, citerò ad esempio la parte del libro relativa alla storia di Rebecca, la quale viene descritta da Sacks in questo modo: “Quando si presentò alla nostra clinica, Rebecca da tutt’altro che una bambina: aveva 19 anni ma, come diceva sua nonna: <in certe cose è proprio come una bambina>. Non sapeva orizzontarsi nel padiglione, non riusciva ad aprire le porte perché non capiva come andasse infilata la chiave e ogni volta che glielo spiegavano lo dimenticava…in tutti i suoi movimenti era goffa e scoordinata: <un fantoccio>diceva una relazione clinica; una <idiota motoria>, diceva un’altra (e tuttavia, quando ballava, la sua goffaggine scompariva d’incanto”.
Nel descrivere Rebecca, Sacks racconta di una ragazza “vittima” della sua menomazione derivante da problemi neurologici che hanno fortemente condizionato le sue capacità. Gli stessi test ai quali Rebecca era stata sottoposta rivelavano gravi problematiche ed evidenziavano i profondi limiti di Rebecca.

Lo stesso Sacks, tuttavia, inizia a comprendere che questo modo di osservare Rebecca aveva portato a “scomporla” esclusivamente in “funzioni e deficit”, perdendo di vista la sua complessità di individuo e rendendo più difficile, anche allo stesso clinico, l’individuare le risorse di Rebecca.

Prosegue Sacks: “I nostri test, i nostri approcci, pensai osservandola lì sulla panchina,…le nostre <valutazioni> sono ridicolmente insufficienti. Ci rivelano solo i deficit, non le capacità; ci forniscono solo dati frammentari e schemi, mentre abbiamo bisogno di vedere una musica, un racconto, una serie di azioni vissute, un essere che si comporta spontaneamente nel suo modo naturale. Rebecca, pensai, era completa e intatta come essere <narrativo>, nelle condizioni che le consentivano di organizzarsi in modo narrativo: ed era molto importante saperlo, poiché ciò permetteva di vedere lei, e il suo potenziale, in modo del tutto diverso da quello imposto dal modo schematico”.

Personalmente, condivido le osservazioni di Sacks e credo che questo sia un punto di vista importante, da tenere sempre in considerazione ogniqualvolta ci ritroviamo, come clinici, sia all’interno di un lavoro di valutazione con le persone sia nell’ambito del lavoro di psicoterapia.

Spesso infatti possiamo cadere nel rischio di assumere un approccio implicitamente centrato sui deficit e sulle difficoltà e forse alle volte il rischio è ancor maggiore in quanto non ne siamo nemmeno consapevoli, condizionati dal pregiudizio di fare valutazioni corrette perché avvalorate da strumenti diagnostici accurati e specifici. Ritengo invece che gli strumenti, preziosissimi arnesi del mestiere che ci permettono di avere un’idea più approfondita della persona con la quale stiamo lavorando, debbono essere utilizzati con coscienza e non dobbiamo diventare loro prigionieri.

Nel lavoro di psicoterapia spesso utilizzo alcuni strumenti testistici (ad esempio il test di Rorschach o alcuni test grafici), tuttavia faccio in modo che essi permettano di fare emergere tematiche che possono essere utilizzate con il paziente nel percorso psicologico, senza che, come ha ben detto Franco Basaglia, il paziente non scompaia dietro l’etichetta diagnostica.

Dal mio punto di vista, questi concetti devono essere alla base del lavoro di psicoterapia che si imposta con il paziente e, nel corso degli anni, ho potuto vedere che tale approccio permette di favorire nel paziente la valorizzazione delle proprie risorse. 


La psicoterapia nei casi di violenza di un figlio verso i genitori

Knife Stabbed In The Back Stock Image by Naypong - freedigitalphotos.net

Knife Stabbed In The Back Stock Image by Naypong – freedigitalphotos.net

In questo articolo vorrei esprimere alcune riflessioni sul fenomeno della violenza filio – parentale, ovvero la violenza di un figlio verso i genitori, citando alcuni concetti teorici appresi alla scuola Vasco Navarra di Terapia Familiare di Bilbao (Spagna). Procederò ad analizzare il fenomeno da un punto di vista sistemico, al fine di delineare le premesse sulle quali impostare il trattamento delle persone all’interno di un intervento di psicoterapia.

Questo fenomeno è molto sentito in Spagna e anche in Italia, negli ultimi anni, ha preso piede probabilmente a causa della proliferazione di un modello familiare basato su una sorta di dinamica finto democratica in cui i genitori sono stati sempre più esautorati del proprio ruolo di guida e di definizione di regole familiari. Tale cambiamento è favorito da una società nella quale le figure di autorità sono state progressivamente svuotate della propria funzione.

Dal punto di vista sistemico la manifestazione di episodi di violenza di un figlio adolescente verso i propri genitori rappresenta in un primo momento il tentativo di emancipazione e di separazione del figlio da una relazione fortemente fusionale con il genitore. Per questo motivo spesso l’aggressività del figlio è rivolta verso la madre, figura con la quale, solitamente, ha il legame più stretto.

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Diagnosi e psicoterapia

In questo post vorrei riprendere alcune parole scritte da Franco Basaglia nel suo libro “Cos’è la psichiatria?” pubblicato per la prima volta nel 1967 e ripubblicato nel 2014 da Baldini & Castoldi. A mio avviso in questo testo si trovano alcuni spunti tuttora molto interessanti rispetto al cambiamento di prospettiva che si è avuto negli anni settanta e che ha portato a trasformazioni importanti nel modo di concepire il diagio psichico.

Nello specifico, qui di seguito in corsivo riporto un frammento di questo testo in cui si parla dell’uso della diagnosi e del come essa può rischiare di far scomparire la persona in sé, come se al posto della persona venisse messa in primo piano l’esigenza di una categorizzazione dell’altro.

Le diagnosi psichiatriche hanno assunto un valore ormai categoriale, nel senso che corrispondono ad un etichettamento, ad una stigmatizzazione del malato, oltre i quali non c’è più possibilità d’azione o di approccio. Nel momento in cui lo psichiatra si trova faccia a faccia con il suo interlocutore (il “malato mentale”) sa di poter contare su un bagalio di conoscenze tecniche con le quali – partendo dai sintomi – sarà in grado di ricostruire il fantasma di una malattia; avendo tuttavia la netta percezione che – non appena ne avrà formulata la diagnosi – l’uomo sfuggirà ai suoi occhi, perché definitivamente codificato in un ruolo che ne sancisce soprattutto un nuovo status sociale. 
Ho pensato di riprendere queste parole, a mio avviso illuminate, di Franco Basaglia per mettere l’accento su un uso scorretto che si può fare della diagnosi, da parte di noi clinici, nel momento in cui diamo molta più importanza all’esigenza di categorizzare che non all’importanza di conoscere realmente e di entrare in relazione con l’altro.

Mi sono sempre chiesta se dietro a questo uso, a mio avviso improprio, della diagnosi all’interno del processo di presa in carico del paziente non vi sia una difficoltà del terapeuta a vivere la relazione con l’altro. Forse occorre “sporcarsi le mani” ed entrare in contatto con il mondo interno dell’altro, aiutarlo a dare voce alle proprie emozioni e percorrere insieme una strada che in alcuni momenti può anche essere incerta e faticosa. In questo senso la diagnosi può essere una mappa ma non il territorio (come direbbe Gregory Bateson) ovvero può aiutarci a trovare l’orientamento ma non deve essere reificata.